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DANIEL AVIGDOR A TORINO PENSANDO AL SUO PASSATO

Antonio Debenedetti — Corriere della Sera — 21 marzo 2008 — pagina 48

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Recensione 013


Daniel Avigdor a Torino pensando al suo passato
Questo breve romanzo è realizzato come un gioco di prestigio. Il suo finale a sorpresa, cupo e allucinato, lascerà a bocca aperta più d' un lettore. Da principio, costruendo la scena proprio come fanno gli illusionisti cioè con sottolineato zelo artigianale, l'Autrice evoca situazioni e stati d'animo conseguenti all' infamia delle leggi razziali cui soggiace, fra tante, anche la famiglia del protagonista. Il pendolo temporale della narrazione oscilla infatti fra gli anni del fascismo e il dopoguerra. Daniel Avigdor, che incontriamo ventenne, viene spedito a comperare una medicina salvavita di cui ha urgenza il suo vecchio padre agonizzante. Come Ulisse, che non approda mai a Itaca, Daniel però vagabonda per Torino, rinviando il suo arrivo in farmacia. A frastornarlo, quasi frammenti d' uno psicodramma, sono i ricordi delle umiliazioni patite quando bisognava nascondersi come topi perché l' appartenenza alla «razza ebraica» equivaleva a una sicura condanna a morte. Riemergono così le circostanze dell' improvvisa sparizione di sua madre Jolanda che tutti credono deportata in Germania. Ma è stato davvero questo il suo destino? La verità, un vero e proprio coup de théatre, salterà fuori (lo si accennava) come il coniglio dal cilindro del prestigiatore impressionando di sé, dei suoi effetti romanzeschi l' intera vicenda. La figura di maggior interesse rimane tuttavia quella del padre di Daniel che, come fratello d' una generazione sterminata nei lager, non sa trovare ragioni sufficienti alla propria sopravvivenza.
Nicola Drago